24/09/2013

Sons of Anarchy

soaChi mi conosce sa che in fatto di serie televisive sono un kender veramente di bocca buona, conosco persone in grado di cavillare all’infinito per smontare una sceneggiatura scricchiolante, un personaggio non ben caratterizzato o un colpo di scena un po’ male assortito. In genere non mi perdo in tutti questi dettagli, un po’ perchè vedo le serie tv come una svago rilassante, un po’ perchè tendo ad affezionarmi parecchio ai personaggi, pertanto finisco col soprassedere su voli pindarici, risolti improbabili e tutte quelle cose che sono il pane quotidiano per i più critici.

Dopo aver visto le prime quattro stagioni di Sons of Anarchy però non posso stare zitto, non posso tacere di fronte a una cagata così plateale, una storia tanto traballante, dei risvolti tanto patetici, noiosi e titubanti, e ad un cast che annovera alcuni tra i peggiori attori si siano mai visti sul piccolo schermo.
Ho conosciuto questa serie grazie ad un amico e collega (un supercritico come quelli che ho descritto prima ;D) e nonostante il soggetto non mi attirasse più di tanto ho cercato di vederla per confrontarmi e verificare di persona quanti di quei difetti fossero secondo me reali e quanti invece pignolerie.

Al termine della prima stagione devo confessare che le aspettative erano discrete, pur non giungendo ad un conclusione soddisfacente (giusto per lasciare aperta la strada ad una seconda serie) la storia riesce a creare un filo narrativo quasi decente… la convinzione che il mio collega fosse stato troppo duro stava prendendo il sopravvento.

Purtroppo già dalle prime puntate della seconda stagione mi rendo conto che la trama costruita con la prima stagione è sparita, come se non fosse mai esistita. Al suo posto trovo situazioni improbabili che si accatastano una sull’altra in un tetris di assurdità che veleggia verso il game over con velocità spaventosa, bande di motociclisti rivali, latinos, nazisti sfigati che vestono sempre in canottiera, nazisti “pro” in giacca e cravatta, bande di asiatici spietati, FBI, ATF, polizia corrotta vs polizia onesta, il tutto in un paesino talmente piccolo e sfigato che non riuscirebbe nemmeno a organizzare la sagra della caldarrosta…
Al termine di questa seconda stagione il mio morale cominciava a imbruttirsi, ma niente poteva prepararmi a quanto avrei assistito con l’obrobriosa terza stagione.

Non voglio spoilerare per cui non entrerò in dettagli, ammetto che da una parte vorrei raccontare ogni dettaglio per mettere in allerta chiunque ignori questa sciagura, d’altra parte l’istinto di conservazione non mi permette di farlo perchè potrei finire per vomitare, e credetemi se vi dico che quando mi succede non sono un bello spettacolo…
Vi basti sapere che la terza serie di Sons of Anarchy è quanto di più inutile, pessimo, mal recitato e mal prodotto esista nell’intera storia delle serie tv, persino le pessime puntate dei CHiPs in cui tutto si ripeteva seguendo sempre lo stesso schema sono un felice ricordo rispetto a quanto ho visto in quella terza stagione; anche la canzone della sigla (unico aspetto universalmente riconosciuto come discreto in questa serie) è stata rimaneggiata rendendola orribile!
Si tratta di una vicenda talmente inutile e sganciata dal resto della serie che da l’impressione di essere stata imposta agli sceneggiatori per allungare di proposito la programmazione, come se i produttori avessero sfondato la porta dell’ufficio degli sceneggiatori e avessero preteso una nuova stagione da preparare in mezz’ora… in una parola ORRIBILE!

Superato quel supplizio ho cominciato a vedere la quarta stagione convinto che dopotutto non potesse peggiorare; fortunatamente così è stato, la quarta stagione riprende i ritmi lasciati durante la seconda (deo gratis la vecchia sigla è stata ripristinata), ahimè ne riprende anche i difetti aggiungendo nuovi protagonisti nei loschi affari che ruotano attorno a Charming e ai SAMCRO, se possibile ancora più sconclusionati di prima.
Giusto per non farci mancare nulla e ricordare i “gloriosi” fasti della terza stagione, gli sceneggiatori sono riusciti a inanellare una serie di epiche brutture nelle puntate finali, schifezze che fanno da cornice ad una delle conclusioni peggiori e noiose che abbia mai visto nella mia carriera di telespettatore.

In mezzo a tanto pattume merita una citazione particolare l’attrice che interpreta la Dr.ssa Tara Knowles (al secolo Maggie Siff), riuscita a stabilire nuovi record in fatto di recitazione piatta, totalmente inespressiva e noiosa, dove ogni battuta è sempre preceduta da una pausa di mezzo secondo di silenzio (scordato la parte?), un verso tipo “ehhhhmmmmm” (ce l’ho proprio qui sulla punta della lingua…), si conclude con la lettura della frase in stile “lista della spesa” e uno sguardo da cernia bollita come non si è mai visto sul piccolo schermo.

Potete osservare Maggie Siff durante la scena più espressiva di tutta la serie

Potete osservare Maggie Siff durante la scena più espressiva di tutta la serie

Insomma come avrete capito Sons of Anarchy è un vero bijou televisivo, alla fine ho dovuto ammettere che per una volta il mio saggio collega non aveva esagerato, questa serie è proprio UNA MERDA!

E scusate il francesismo…

18/09/2013

Mirror’s Edge

mirrorHo terminato Mirror’s Edge (alla buon’ora direte :D), gioco comprato al prezzo di una birra insieme ad una caterva di altri giochi durante un’offerta Humble Bundle.
Devo confessare che questo gioco non mi ha mai attirato particolarmente, l’avevo notato giusto per qualche filmato che mostrava i presunti miracoli della tecnologia Physx di Nvidia (che come da mie previsioni si è rivelato per quello che è, una vaccata commerciale implementata per cose inutili su giusto un paio di titoli) ma non mi ha mai incuriosito al punto da spingermi all’acquisto, almeno non prima di quella offerta superconveniente.

Tecnicamente lo trovo arcaico, anzi per dirla tutta mi fa venire i conati se penso che il meraviglioso e artistico Bioshock è uscito quasi un anno prima… non parliamo poi della trama degna di una puntata di Peppa Pig.
Lo schema di gioco all’inizio non è malvagio, questo saltellare di palazzo in palazzo come funamboli da un’illusione di grande libertà, sensazione che poi sparisce dopo 10-15 minuti di gioco, giusto il tempo di rendersi conto di quanto sia ripetitivo lo schema e lineare la trama.
Gli unici aspetti che spezzano la monotonia sono le sequenze che prevedono scontri a fuoco e le sezioni claustrofobiche; le prime sono di una facilità che sfiora il ridicolo, gli avversari sono caratterizzati da una deficenza artificiale che oserei definire magistrale(si muovono solo per farsi colpire meglio dal giocatore), evidentemente le sparatorie sono state calibrate per i giocatori da console menomati dai joypad perchè con mouse e tastiera il livello di sfida è veramente ridicolo.
Le sezioni claustrofobiche invece sono sequenze di gioco che mettono veramente a dura prova la pazienza del giocatore, questo non per la complessità nel raggiungere un obbiettivo, ma proprio perchè spesso risulta molto difficile anche solo capire come diavolo fare a raggiungerlo, insomma capire cosa occorre fare per completare la sezione; alla fine dopo una ventina (ma anche trentina) di tentativi si trova la strada corretta (spesso talmente assurda che nemmeno una ginnasta da oro olimpico riuscirebbe a riprodurre le gesta della protagonista), capite bene però che in queste situazioni il rischio di abbandono per noia è sempre dietro l’angolo.

Unico aspetto pienamente positivo è la “gnoccosità” della protagonista, asian, caschetto sexy, fisico atletico, se però bisogna scavare fino a questo per trovare il lato positivo in un videogioco significa che il titolo è proprio messo male…

26/08/2013

internet.org

Durante questa settimana un po’ tutti i media non hanno lesinato elogi di fronte alla filantropica iniziativa di Mark Zuckerberg internet.org, ma quanto c’è veramente di filantropico dietro a questa mossa?

Vediamo di capirci un po’ meglio, partiamo dal presupposto che questa iniziativa sia veramente filantropica, insomma una roba alla “one laptop per child” che permetta alle popolazioni che vivono in paesi economicamente svantaggiati di acculturarsi e migliorare la propria vita o la società in cui vivono.

Prendiamo quindi ad esempio la nostra società, che bene o male questi mezzi già li possiede (più o meno…) e osserviamo quanto il web migliora la nostra vita; certamente è uno strumento utile, ci permette di raggiungere informazioni di cui non eravamo a conoscenza, ci permette di partecipare e di contribuire a questa “conoscenza globale” sottoforma di post sui blog, di interventi sui forum, di discussioni sui newsgroup.
Ma in realtà quante delle attività online sono finalizzate a tutto questo?

Qual’è invece il peso delle attività futili, certamente divertenti, ma scarsamente educative o comunque migliorative della nostra condizione di esseri umani?
Tutti i milioni di utenti che popolano i social network e che si scambiano miliardi di informazioni sottoforma di brevi messaggi da 160 caratteri, immagini più o meno divertenti, fotografie taggate e click su “mi piace”, quanto sono significativi in termini di contributo all’umana evoluzione? Qual’è il peso di un post su twitter o di una foto taggata rispetto chessò ad un post di un paio di pagine su un blog?
Per carità, anche il post su un blog o una discussione su un forum può essere frivola, divertente e intellettualmente non elevata, ma presuppone una attività partecipativa che comporta una riflessione.

Se poi andiamo a vedere le statistiche scopriamo che la propensione a intraprendere attività intellettualmente stimolanti online è fortemente influenzata dalla classe sociale in cui si è cresciuti e dove si vive, quindi in parte anche dal livello di istruzione e dalla curiosità intellettuale che anima gli individui in questione.
Se guardiamo i dati il gap tra gruppi con differente livello di scolarità è pressochè costante, al contrario la diffusione di connettività broadband e dispositivi tecnologici che permettono accesso alla rete è talmente pervasiva ed esponenziale da aver praticamente saturato il mercato invadendo qualsiasi fascia di reddito o gruppo sociale.

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Quindi se la diffusione capillare della tecnologia non ha sostanzialmente migliorato le condizioni di vita nel mondo occidentale, perchè dovrebbe farlo in paesi dove i problemi principali sono la scarsità di acqua potabile, di cibo, di strumenti per lavorare e di scuole?
Siamo proprio convinti che un tablet o uno smartphone connessi al web a qualche decina di Kbps siamo risolutivi?
Non è forse più ragionevole pensare che sia prioritario fornire i mezzi di sostentamento necessari, migliorare il livello di istruzione e forse POI fornire accesso al web in modo da sviluppare quelle attività intellettualmente stimolanti che possono portare a una maggiore consapevolezza dei problemi di ciascuna comunità?

In realtà Zuckerberg e i suoi compagni di merende sono solo alla spasmodica ricerca di nuovi mercati da cui attingere utenti per i loro servizi (senza i quali chiuderebbero prima di subito), possibilmente attraverso dispositivi che meglio si adattano ai loro servizi, ovvero smartphone e tablet.
Non è un caso che gli strumenti prediletti siano questi, dispositivi scarsamente interattivi e generalmente usati in modo molto passivo, perfetti per postare brevi messaggi (non certo per scrivere un lungo e noioso post come questo) o per fare browsing, gli strumenti perfetti per definire se stessi sulla base di parametri comprensibili dal mercato (sei single, accoppiato o in cerca di partner? quali libri ti piacciono? quali film ti piacciono? etc etc etc…), guardacaso l’obbiettivo di società che vivono di data mining come Facebook o Google.

Non solo, alla base di tutto questo vi è una dottrina molto popolare in California che risponde al nome determinismo tecnologico, che vede nella tecnologia la via maestra per risolvere tutti i problemi (sociali, politici, economici etc etc) del pianeta, basti pensare che qualche invasato di questa scuola di pensiero è arrivato a teorizzare che con un manuale di javascript da 100 $ un homeless potrebbe arrivare a risollevarsi e migliorare la propria condizione di vita…

Qui il cerchio si chiude, io non giudico negativamente Zuckerberg o suoi sodali per il tentativo di espandere i loro potenziali utenti (qualcuno ha detto prodotti?), non sopporto però che tutto questo venga mascherato da iniziativa filantropica, perchè è falso e vergognoso nei confronti di coloro che vivono in condizioni di totale povertà, spesso a causa degli interessi occidentali.

22/08/2013

Muletto ARM

Dalle analisi degli accessi noto con grande piacere che c’è sempre grande interesse riguardo ai server domestici, se preferite “muletti”.

Di recente il mio storico Epia 5000A ha subito un brutto colpo, una serie di guasti allo storage l’hanno costretto ad un down forzato, vista poi la difficoltà a reperire hard disk PATA sono stato costretto ad acquistare un adattatore IDE-SATA il quale a sua volta mi ha costretto a ritrasferire l’Epia nel primo storico case a causa di problemi di spazio (fisico stavolta).

Naturalmente nessun dato è stato perso grazie ai rigorosi piani di backup che ho implementato nel tempo, questa pausa però mi ha spinto a riflettere un po’ sul futuro del mio server domestico.
In tal senso l’esperienza con Raspberry PI è stata illuminante, le possibilità software sono pressochè le stesse del mio Epia x86, l’assorbimento è di gran lunga inferiore (meno di 1/5 in idle, addirittura circa 1/9 a pieno carico), la temperatura da dissipare pressochè trascurabile, gli ingombri ridottissimi, le performance simili.
L’unico aspetto limitante di Raspberry PI è lo storage, dover ricorrere ad un disco usb alimentato mediante un hub usb rappresenta un vero scoglio, o per lo meno trasformerebbe quello che oggi è un bel case ordinato e compatto in una foresta di mangrovie di cavi.

Una soluzione ci sarebbe, si tratta del progetto Fairywren, una mainboard mini-itx a cui connettere Raspberry PI con tutto l’occorrente per storage, rete, alimentazione, hub usb interno, un piccolo gioiellino che sta nascendo su Kickstarter e che rappresenterebbe una vera manna per chi come me vorrebbe usare Raspberry come server domestico.

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Frequentando vari forum però mi è stato giustamente fatto notare che al di la dell’hype generato dal progetto Raspberry PI è basato su un SoC relativamente antiquato e piuttosto limitato in termini di risorse, idem per quanto riguarda progetti simili tipo BeagleBone.
Così sono venuto a conoscenza di altri progetti molto più interessante, magari meno rivolti alla ricerca o alla sperimentazione ma dotati di più risorse, insomma il perfetto punto di contatto tra le esigenze server e i vantaggi delle architetture ARM.

Due hanno attirato la mia attenzione, entrambi dotato di SoC Cortex A20 dual core, entrambi dotati di 1GB di ram DDR3 e un canale SATA, si tratta di:

Cubieboard 2

Cubieboarda2

Olimex A20-OLinuXino-MICRO

A20-OLinuXino-MICRO-0

Entrambi ottimi progetti, simili dal punto di vista hardware ma differenti come approccio e filosofia di base.
Cubieboard 2 ha al suo attivo una comunità abbastanza diffusa, un forum piuttosto popolato e un layout piuttosto compatto, OLinuXino A20 è meno diffuso, un layout più “affollato”, una comunità meno popolosa ma è dotato di un gran numero di interfacce GPIO (quindi molto più indicato per la ricerca e applicazioni pratiche, un approccio simile a Raspberry PI per intenderci), entrambi sono progetti open hardware.

Di per se sarei fortemente attratto da entrambi questi progetti, l’unico aspetto che mi lascia dubbioso è il layout di questi sistemi, bellissimo e compatto ma difficilmente integrabile con un case ordinato e altrettanto compatto, insomma se dovessi utilizzarli mi ritroverei con una foresta di mangrovie di cavi come con Raspberry PI

Quasi in risposta alle mia suppliche il team di Cubieboard ha annunciato un nuovo progetto open hardware chiamato Cubietruck che prevede:

  • SoC A20 Cortex-A7 Dual Core
  • 1 o 2 GB di ram
  • canale SATA
  • interfaccia di rete Gbps

ma soprattutto grande attenzione al layout, tanto da essere sovrapposto a quello di un hard disk da 2.5″, e addirittura pubblicando un prototipo di case veramente fantastico.

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Mio al DAY1!!!

[EDIT]

Good news! Sembra che la produzione di Cubietruck stia per iniziare! Yuppi!!!! :)

08/08/2013

Personalizzare il prompt bash

Della serie “tips & tricks per tutti” parliamo di un’altro semplice trucchetto a costo zero utilissimo per evitare di fare tutte quelle cose che in gergo tecnico e strettamente sistemistico si definiscono MINCHIATE.

Lavorando prevalentemente su console testuali (es terminali virtuali di server GNU/Linux, magari via ssh) capita di aver aperto contemporaneamente parecchi terminali verso diverse macchine.
Lavorare in questo modo presenta innumerevoli vantaggi, è un modo veloce, snello e immediato per poter fare qualsiasi cosa in brevissimo tempo.
Ad un utente comune potrà sembrare arcaico ma vi assicuro che se dovessi riconvertirmi a sistemista Windows impazzirei, o quantomeno sarei molto meno produttivo dovendo tornare ad una interfaccia prevalentemente grafica, non a caso la prima cosa che faccio quando prendo in mano una macchina Windows è installare cygwin e OpenSSH.

A questo dettaglio tecnico aggiungete la classica disorganizzazione e arroganza del cliente tipico italiano (già, proprio quello che pretende le cose fatte “per ieri”), le offerte folli dei commerciali (avete presente l’espressione “vendere la pelle dell’orso prima di averlo ucciso”?), il caos imperante in qualsiasi CED, shakerate bene e otterrete un mix letale di pessime condizioni operative, in questa situazione capite bene che è molto facile confondere un terminale per un altro :(
Provate a immaginare il brivido che vi corre lungo la schiena appena vi siete accordi di aver droppato un database su un server di produzione anzichè quello di test…

Per evitare tutto questo, o per lo meno per renderlo meno probabile basta un semplicissimo accorgimento, personalizzare il prompt del terminale.
E’ sufficiente ad esempio aggiungere una label prima del prompt, magari di un colore differente a seconda della criticità del sistema come in questo esempio

terminale produzione

Per fare questo è sufficiente modificare gli script di inizializzazione della bash per il proprio utente oppure per tutto il sistema, esportando opportunamente la variabile PS1 (Default interaction prompt).

Ad esempio per ottenere il prompt visibile nello screenshot su RedHat Enterprise o CentOS è sufficiente esportare la variabile con questo comando:

export PS1='\[\e[1;31m\][!!! PRODUZIONE !!!]\[\e[m\] [\u@\h \W]\$'

Per rendere la modifica attiva ad ogni login è sufficiente modificare gli script di init della bash (es .bashrc o .bash_profile nella propria home directory, oppure /etc/profile o /etc/bashrc, oppure aggiungere uno script in /etc/profile.d/) in modo che la variabile venga esportata come meglio preferite ad ogni login.

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